
Di Emiliano Pennisi – Quella mattina avevo appuntamento con un prete coreano. Da qualche tempo ci conoscevamo e una volta alla settimana lo incontravo per bere un caffè e per fare quattro chiacchiere. Lui aveva trascorso alcuni anni a Roma per studio e non voleva dimenticare l’italiano.
Come le altre volte sarei dovuto arrivare a casa sua alle dieci, nella zona di Suyu-dong, una tranquilla periferia nella parte nord orientale di Seul con una bella vista su alcune delle montagne che circondano la città.
Appena il tempo di bussare alla sua porta e il mio amico mi disse di aver bisogno di un po’ d’aria fresca e mi propose di fare una passeggiata in un parco poco lontano. Avremmo fatto la nostra chiacchierata camminando.
Accettai volentieri, la giornata era molto bella nonostante il freddo.
Lungo la strada padre Kim mi spiegò che quello di cui parlava non era un parco come gli altri, anche se gli abitanti della zona ci andavano per fare sport o per godere di una bella giornata di sole.
Entrammo, ma a prima vista mi parve proprio di essere in una delle tante e belle aree verdi di Seul.
La neve caduta abbondante nei giorni precedenti copriva ancora i bei viali alberati e persone di mezza età erano concentrate nella loro ginnastica mattutina.
Proseguendo il cammino però, il paesaggio divenne sempre più ampio fin quando giungemmo in un grande spazio aperto dominato da una costruzione molto alta che aveva tutta l’aria di essere un monumento ai caduti.
Tante lapidi allineate in file ordinatissime e avvolte in un silenzio irreale facevano da cornice ad altrettante tombe con fotografie in un bianco e nero sbiadito dal tempo che rivelavano volti di giovani ragazzi.
“Chi è sepolto qui?”, chiesi al prete dopo qualche esitazione.
“Gli studenti e i professori morti durante i moti del 19 Aprile. Ne hai sentito parlare?”, mi rispose a voce bassa, come per non disturbare il loro riposo.
Avevo sentito parlare di quella storia, forse avevo anche letto qualcosa al riguardo, ma non me n’ero mai occupato molto fino a oggi.
Così una semplice passeggiata in una mattina d’inverno mi ha aperto le porte del ricordo di una delle pagine più drammatiche della Corea del Sud dopo la Guerra del 1950-1953.
Mentre camminavamo in silenzio tra le tombe ricoperte di neve, mi sembrava quasi di sentire le voci di quei ragazzi e dei loro professori che il 19 Aprile 1960 manifestarono a Seul contro il vecchio presidente Yi Seungman. L’anziano uomo politico era accusato di aver vinto le elezioni del 15 Aprile con dei brogli e così un ampio movimento di protesta composto appunto da giovani e da professori universitari si diresse verso il palazzo presidenziale. L’esercito ebbe ordine di sparare e in quel giorno oltre cento persone morirono nelle strade di Seul.
L’eco di quella giornata risuonò di nuovo nella mia mente quando entrammo in un edificio in stile antico che ospitava centinaia di grandi fotografie, l’ultimo ricordo rimasto delle vittime di cui si era ritrovato il nome e di quelle rimaste anonime. Dinanzi ad un altare con molti bastoncini di incenso accendemmo anche i nostri e restammo lì in raccoglimento prima di riprendere la via di casa.
Prima di uscire però, ci fermammo a dare un’occhiata al Museo del 19 aprile, piccolo, ma molto ben organizzato come accade spesso con i musei coreani. Attraverso molti video, alcuni documenti dell’epoca, e ricostruzioni di vita quotidiana davvero realistiche, il visitatore può calarsi negli avvenimenti e avere così un’idea precisa di ciò che accadde durante quei giorni di primavera di tanti anni fa.
Un luogo da visitare, a mio parere, il Memoriale del 19 aprile, se si ha un po’ di tempo in più quando si è in vacanza a Seul. Ma anche un luogo da scoprire o da riscoprire per uno straniero che vivendo qui voglia conoscere una delle pagine forse meno note della storia coreana recente.
* Emiliano Pennisi, di Roma, vive a Seoul da 14 anni, dove insegna lingua e cultura italiana alla Sogang University.