Gwangju 5 18: riflessioni sul tema di “rivolta e identità” (di Nicolò Salsi).

«Ma i generali sono dei ribelli, hanno preso il potere in maniera illegittima.

L’avrai visto: la gente è stata pestata e accoltellata in pieno giorno, e hanno perfino sparato.

I soldati semplici eseguivano gli ordini dei superiori. Come puoi dire che loro sono la nazione?».

Han Kang, Atti umani

(Di Nicolò Salsi) – Quest’anno cade il quarantunesimo anniversario della Rivolta di Gwangju. Tra il 18 e il 27 maggio del 1980, questa città sudcoreana visse giorni di autogoverno e continui scontri armati tra civili ed esercito regolare. Quella che due giorni prima era iniziata come una pacifica fiaccolata notturna per chiedere un governo più giusto e democratico, fu accolta il giorno 18 dalle baionette e dai fucili, trasformando una sfida studentesca alla legge marziale di Chun Doo-hwan, in una lotta per la sopravvivenza che coinvolse l’intera cittadinanza. Una solidarietà nuova, benché fragile, che accomunò giovani e adulti di ogni estrazione sociale nel rifiuto categorico di rimanere semplici osservatori, tanto del massacro che si stava compiendo, quanto dell’instaurarsi dell’ennesima dittatura.

Questo “essere spettatore e non protagonista del proprio destino”, contro cui la popolazione di Gwangju insorse, la studiosa Namhee Lee lo identifica col “senso di fallimento” che alcuni letterati coreani avevano interiorizzato fin da inizio secolo. Un sentimento di inadeguatezza e frustrazione nato nel periodo coloniale sotto il Giappone imperiale, cresciuto a seguito della scissione della penisola e del conflitto tra Nord e Sud, ed esacerbatosi infine sotto le dittature di Syngman Rhee e Park Chung-hee. La spregiudicata modernizzazione del Paese negli anni ’70 comportò sia benefici e crescita economica, che ulteriore alienazione, sfruttamento e ingiustizia sociale.

In uno Stato in cui l’identità del singolo oscillava tra i giochi di potere della Guerra Fredda (il dualismo capitalista-comunista) e gli interessi di un regime autoritario insofferente e corrotto, gli intellettuali dissidenti riconobbero l’importanza di costituire un nuovo soggetto storico, in grado di riscrivere e correggere il corso della storia nazionale. Ovvero, un’identità onnicomprensiva che si articolasse non solo come controcultura, ma anche come contro-società, individuando coloro che avevano veramente a cuore il bene della nazione e che ne erano i legittimi rappresentanti: non i dittatori, i generali o le grandi imprese tessili, e nemmeno gli Stati Uniti; ma il minjung, la ‘gente comune’.

A Gwangju questo nuovo protagonismo degli umili viene descritto da Choi Jungwoon col concetto di “Comunità Assoluta”. Di fronte a una medesima esperienza di orrore e paura, i cittadini riscoprirono un senso di appartenenza comunitaria che sembrava essersi perduto da tempo. Nel momento in cui la violenza dello Stato-regime produceva morti e feriti, mutilazioni e soprusi, e cercava perciò di negarle persino la dignità umana, la comunità mise da parte ogni individualismo per sperimentare un’unità spontanea, solidale e senza precedenti, articolata in un “NOI contro loro”. Una società armonica in grado di difendersi e prendersi cura di sé, che fosse quindi veramente “umana”, veramente giusta, veramente protagonista. Un’esperienza che però non era destinata a durare.

Dopo quattro giorni di scontri e la cacciata dell’esercito, la città si autogovernò per altri cinque. Quando il pericolo immediato venne meno e fu il momento di far nascere una coscienza politica, ricomparvero anche le divisioni. Operai e studenti disputavano sul da farsi, mentre il resto della popolazione a poco a poco abbandonò l’occupazione delle strutture pubbliche e tornò alle proprie case. Il 27 maggio l’esercito rientrò in città e pose fine a qualsiasi ipotesi di autonomia.

La rivolta di Gwangju costituì un atto affermativo e trasformativo, di rinascita individuale e collettiva: l’esempio di una società impostata su valori diversi, opposti a quelli sostenuti dal regime o dalla loro epoca. Fu un’esperienza indelebile per tutti coloro che la vissero, ma anche per quelli che invece non ebbero modo di parteciparvi.

Il concetto di ‘rivolta’ identifica sì qualcosa di circoscritto nel tempo e nello spazio, ma non si esaurisce lì. Scrive Furio Jesi: “La maggior parte di coloro che partecipano a una rivolta scelgono di impegnare la propria individualità in un’azione di cui non sanno né possono prevedere le conseguenze” (dal saggio Lettura del Bateau ivre di Rimbaud). In quanto “sospensione del tempo storico”, la rivolta è un’interruzione della normale quotidianità, durante la quale gli individui “scelgono”, volontariamente, spontaneamente, di dare battaglia per un ideale. Pur di “sospendere la storia” e uscirne, anche solo per poco, le persone debbono invariabilmente entrarvi e dialogarci. Dimostrare cioè di possedere quella soggettività e capacità d’azione che il movimento Minjung rivendicava con forza. La Rivolta di Gwangju costituì un ingresso nella storia per chi fino ad allora era stato invisibile.

“Gwangju 5 18” rappresenterà la svolta per una dolorosa presa di coscienza nell’intero movimento democratico sudcoreano. Un evento topico della recente storia nazionale che fino ad allora era stata percepita da molti letterati solo come “fallimentare”. Il ricordo dell’evento, da un lato minacciato dalla censura e per converso ampiamente idealizzato dagli attivisti, accompagnerà le manifestazioni e le lotte operaie per tutti gli anni ’80, sino alla fine della dittatura e all’introduzione nel Paese di un più equo sistema parlamentare.


Incappai per la prima volta nel nome “Gwangju” qualche anno addietro, per puro caso, e cercai subito materiale accademico sull’argomento. Quel nome era custodito su uno scaffale di libreria, nella sezione “Novità”, qui in Italia. La copertina del suo scrigno leggeva: Han Kang, Atti umani. Questo breve articolo è il risultato di quel fatidico incontro.